domenica 2 marzo 2014

Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti

di Curzio Malaparte
Vallecchi, Firenze, 1995 (1a ed. 1921)
Fuggivano gli imboscati, i comandi, le clientele, fuggivano gli adoratori dell'eroismo altrui, i fabbricanti di belle parole, i decorati della zona temperata, i generali, i cantinieri, i giornalisti, fuggivano i napoleoni degli Stati Maggiori, gli organizzatori delle difese arretrate, i monopolizzatori del patriottismo degli angoli morti e delle retrovie, decisi a tutto fuorché al sacrificio, fuggivano gli ammiratori del fante [...] fuggivano tutti in una miserabile confusione, in un intrico di paura, di carri, di meschinerie, di fagotti, di egoismi e di suppellettili, tutti fuggivano imprecando ai vigliacchi e ai traditori che non volevano più combattere e farsi ammazzare per loro.
Siamo nel 1921: la guerra è finita, ma non del tutto, con la questione di Fiume che agita ancora la nazione ed il Natale di sangue appena passato, e lo Stato italiano versa in condizioni drammatiche: leghe bianche, rosse e fascisti si fronteggiano in un escalation di violenza. In questo clima si pubblica un libro che oggi si potrebbe definire "terrorista", un libro che dà corpo alle paure e ai fantasmi di borghesi e piccoli proprietari, già provati dal biennio rosso e che stanno per confluire nel delirio mussoliniano. Malaparte non solo ribalta la verità "ufficiale" su Caporetto, addossando a Cadorna e allo Stato Maggiore dell'esercito la responsabilità del massacro ottuso di soldati nelle undici battaglie dell'Isonzo, ma interpreta la sconfitta non come vigliaccheria dei soldati (come vuole la becera vulgata cadorniana), bensì come rivoluzione sociale dell'esercito - la cristianissima fanteria - contro lo Stato borghese, contro chi è rimasto comodamente al riparo dalla vita - e dalla morte - della trincea; rivoluzione sacrosanta e di cui è legittimo vantarsi ("il gesto più coraggioso della nostra esistenza di poltroni")! Il libro evoca il fantasma della rivoluzione russa, esalta le affinità tra i popoli russo e italiano - pur operando un distinguo tra il "comunismo fatalista e pessimista" dei primi e il "fatalismo latino, individualista" dei secondi - e finisce teorizzando due movimenti che tenderanno paralleli alla "civiltà dell'uomo umano" (sì, il Pantheon di Malaparte è decisamente popolato in maniera bizzarra).
L'interpretazione storica di Malaparte naturalmente ha qualche difficoltà a spiegare la ricostituzione dello stesso esercito nel giro di un paio di mesi e la sua idea dell'uomo vecchio che dominò la crisi fa più acqua del Piave stesso, ma questo all'autore non importa; gli interessa piuttosto evidenziare la "coscienza della funzione sociale" della fanteria ovvero del "proletariato dell'esercito", il suo "ingresso nella Storia".
Com'era da attendersi, il libro viene sequestrato e i fascisti assaltano le librerie dov'è esposto ingiungendone il ritiro. Quando lo ripubblica nel 1923 - previa adesione al PNF che è andato al potere, cambio di titolo ed epurazione di alcune frasi - Malaparte si inventa un lungo sofisma per rendere il libro tollerabile, arzigogolando che le grandi disfatte della Storia italiana sono necessarie per sottomettere il popolo alla "tirannia legittima degli eroi", eroi che avversano il popolo facendone quindi il bene (manco fossero il diavolo di Faust...). È in pratica una bella ruffianata (per non essere volgari...) a Mussolini, ma non servirà: nuove proteste, disordini e nuovo sequestro. In effetti l'unico dato degno di nota di questa noiosa prefazione alla 2a edizione mi pare l'accento sul carattere italiano, sempre pronto ad affidarsi a qualche presunto "eroe" o "uomo della Provvidenza" che gli risolva i problemi (pensate ad un altro ventennio recente, finito in farsa più che in tragedia...).
Il volume, che include la suddetta prefazione e un interessante studio sulla revisione testuale tra le due edizioni, è accompagnato da un'introduzione che mette in luce accuratamente le tematiche e le ambiguità malapartiane e che presenta due soli piccoli difetti: i concetti-chiave sono ripetuti all'infinito, risultando in una lunghezza che potrebbe utilmente ridursi della metà, e lo stile di scrittura è a tratti volutamente ricercato e (si spera involontariamente) pesante, facendo da contraltare allo stile fluido e potente di Malaparte. Per finire, in tema di legami letterari, si ritrova spesso nel testo il riferimento al riso rosso di Andreev, cui forse l'introduzione avrebbe dovuto dedicare una riga.

Nessun commento:

Posta un commento