sabato 24 maggio 2014

Via del littorio

Lo Scarpone I, n. 13, p. 1 (1931)
In vetta alla Torre Costanza;
tratta da Mary Varale, dalle dolomiti alla Grigna
Lo stizzito articolo de Lo Scarpone I, n. 21, p. 3 (1931)
L'articolo su RM SEL 1933, p. 120
L'articolo su Roccia n. 26 (1933)
da Roccia n. 26
Stefano alla sosta di partenza
Sul 4° tiro
Stefano sul 4° tiro
Foto di vetta...
Torre Costanza - Grignetta
Parete E


Attenzione: segue lungo sproloquio storico-alpinistico sulla via. Se siete interessati alla pura e semplice relazione, saltate qui.

Bramavo da un po' di tempo questa via, ma ad essere onesto devo dire che uno dei motivi scatenanti la mia curiosità era la storia di quel che avveniva in cima al torrione negli anni '30, su cui sono riuscito finalmente a raccogliere un poco di documentazione. Cominciamo dall'inizio: non è chiaro se l'idea di far issare un fascio littorio in cima al torrione Costanza nasca da un annoiato podestà di Lecco o se sia - come dice Lo Scarpone anno I, n. 13, del 15 luglio 1931 - "iniziativa di alpinisti [?] milanesi". Lo Scarpone non ci dice se i proponenti - possibilmente non al culmine della loro lucidità - volessero convertire al verbo fascista i camosci della Grignetta analogamente ai mimimmi marziani o se pensassero di trascinare in cima al torrione qualche panzuto gerarca ad onorare il simulacro, ma pazienza: il manufatto viene issato il 5 luglio 1931, lungo la via Boga, e buonanotte. Tra i personaggi che compiono questa "impresa" figurano Cassin, Boga e la Varale, allora zelanti seguaci delle pagliacciate di regime, come mostrato (anche) in diverse fotografie.
Qualcuno però non è contento di questa ideona e poco dopo esegue un audace colpo di mano, abbattendo il vessillo. Chapeau! Il fascistissimo Scarpone se la prende assai male e pubblica un articolo dai toni stizziti sul n. 21 del 15 novembre 1931, dove si sorprende che "a dieci anni dalla Rivoluzione fascista ci sono ancora individui, anche tra gli alpinisti, che si macchiano di simili profanazioni" ed informa che l'infausto simbolo è stato ripristinato il primo novembre. La baldanza dei toni contrasta un po' con la codardia dell'uso di uno pseudonimo, ma evidentemente anche Ser Brunetto "teneva famiglia" come il citato Prasan (per capire il criptico riferimento finale è obbligatorio leggere l'illuminante saggio Piccozze rosse e cavalieri neri di Alberto Benini). Le dimensioni di questa specie di rozzo pipistrello zincato non sono note con precisione: Saglio nella guida delle Grigne (p. 317) parla di 2,5 x 0.5 m2, "che spicca rossastro da lontano", Lo Scarpone dice "tre metri e mezzo", la Rivista Mensile del gennaio 1933 dove si racconta l'apertura della via Boga alla N della Torre Costanza il 28 giugno 1931 (p. 37) conferma: "Per la stessa via è stato issato il Fascio Littorio che orna la Torre (alt. 3,50 - diam. 0,50)". Tutte queste misure si riferiscono ovviamente al secondo fascio; se il metro di differenza non è una svista, potrebbe corrispondere alla punta o alla base.
Ma tralasciamo la pignoleria dimensionale e prestiamo attenzione agli "ignoti" autori del colpo di mano. Secondo quanto riportato qui, si tratterebbe degli apeini, anche se gli anni non corrispondono esattamente (a suggerire l'idea è anche l'analogia tra le "mosche" de Lo Scarpone e l'ape simbolo del movimento). Qui sarebbe d'uopo una parentesi sulla genesi dell'associazionismo alpinistico in Italia, ma conviene limitarsi a constatare come varie parti politiche e i cattolici fossero dediti all'educazione delle masse operaie, ovvero: guerra all'alcolismo (vera piaga sociale dell'epoca) e aggregazione politica tramite lo sport. l'APE (associazione proletaria escursionisti) nasce nel 1921 dall'UOEI e viene sciolta dal regime nel 1926. Alcuni suoi membri continueranno però a ritrovarsi clandestinamente nelle montagne (e non solo) e a compiere azioni dimostrative (e non solo).
Il primo ottobre 1933 il fascetto della Costanza riceve visite: la Rivista Mensile della SEL (p. 120) ci informa che: "domenica 1 ottobre il Gruppo Arrampicatori Fascisti [ex Dopolavoro] Nuova Italia di San Giovanni, con cerimonia commovente nella sua austerità, ha inaugurato il Gagliardetto donatigli, con gentile atto di fraternità scarpona, dal Dopolavoro Lario di Monte Olimpino". A parte il notare come la vita nei Dopolavoro di Lecco degli anni '30 dovesse essere di una noia mortale se ci si riduceva a fare queste buffonate, non si capisce cosa ci sia di austero in 44 partecipanti che s'irrigidiscono sull'attenti quando la povera Varale bacia il Gagliardetto (cielodurismo ante litteram?) e biascicano Giovinezza, ma sappiamo che il regime teneva alla forma più che alla sostanza. Ed infatti l'articolo anticipa la posa del secondo fascio al 28 ottobre (giorno infausto in cui il re-fantoccio non firmò il decreto sullo stato d'assedio, avallando di fatto la Marcia su Roma). Un breve resoconto si trova anche su Roccia n. 26 del 1933, con la cerimonia che passa da "originale" (SEL) a "fascista". Anche qui la data diventa il 28 ottobre 1931 e l'altezza si conferma di 3,5 metri.
Poco dopo, il 15 ottobre 1933, Cassin, Varale e Dall'Oro aprono una nuova via sulla Costanza, con dedica al fascio littorio della cima (e dagli!). Nel 1945 il pipistrello incontrerà infine il destino vaticinatogli dagli apeini: abbattuto, viene trascinato a valle dalla neve e sarà "riciclato" dai contadini, trovando finalmente una sua utilità.
Oggi questa via è una buona scelta se si vuole arrampicare tra la Storia in solitudine, in un ambiente eccezionale e lontano dalle folle che si accalcano su Albertini, Marimonti e consimili. Per tutte queste caratteristiche è ampiamente consigliabile, anche se solo un paio di tiri o poco più si possono definire "belli", mentre metà della via si dipana senza infamia e senza lode.
Accesso: dalla chiesetta dei Piani Resinelli si prende a destra restando bassi e si segue la strada che discende costeggiando un serie infinita di villette, superando un paio di vaghi tornanti e giungendo all'incrocio con la Via alle Foppe dove si parcheggia (ora c'è un divieto di accesso). Si prosegue lungo lo sterrato seguendo le indicazioni per il rifugio Rosalba. Si supera il canalone Valsecchi e si prende a destra al bivio per la Torre Costanza e la Punta Giulia (indicazione). Il sentiero risale il Canalone del diavolo fino ad un bivio dove si segue per la Torre Costanza (indicazione) e ci si infila nel canalone dove le indicazioni spariscono (un vago ometto resta a suggerire la via). Il percorso lascia comunque poca scelta: si risale il canalone con dei passaggi di arrampicata facili ma insidiati da erba e da sassi instabili fino ad uscirne sulla destra (ometto). Si è ora su ripidi prati al cospetto della meta, cui ci conduce una traccia. Sulla parete si nota una lapide e, qualche metro a sinistra (faccia a monte) dove la traccia termina, vi è un fittone resinato che marca la partenza.
Relazione: via con una prima parte abbastanza anonima e con qualche sasso mobile, che migliora nella seconda metà dove si trova il tiro-chiave - tutt'altro che banale da farsi "pulito" e solo parzialmente risistemato a fittoni resinati. Chiodatura essenziale nei tiri facili e ottima sul tiro-chiave, che si supera facilmente in A0. Portare eventualmente friend medi. Tutte le soste sono su due fittoni.
1° tiro: salire portandosi un poco verso sinistra fino ad un piccolo terrazzo da dove si risale diritti fino alla sosta, posta ancora sulla sinistra; 25 m, IV+, III+; 1 fittone, 1 chiodo.
2° tiro: puntare all'evidente fittone sulla destra, superare un risalto e raggiungere un terrazzo erboso con la sosta; 25 m, IV+, III+; 1 fittone.
3° tiro: salire tenendosi sulla destra e portarsi verso la parete per rocce un po' erbose. Qui infilarsi nello stretto camino di sinistra e risalirlo fino ad uscire in sosta; 40 m, IV+; 2 fittoni, 1 chiodo.
4° tiro: salire la stretta fessura fino alla sosta; 25m, A0; 3 fittoni, 8 chiodi. La fessura è valutata VII+, ma il sottoscritto non ci ha pensato due volte ad agguantare i chiodi - i primi due fittoni sono onesti, ma tra il secondo ed il terzo non mi è parso il caso di rischiare un bel voletto su chiodi.
5° tiro: salire a sinistra della sosta a prendere una bella lama verticale, poi spostarsi sulla destra e per rocce più facili raggiungere la sosta; 40 m, V+, IV+; 2 fittoni, 3 chiodi (ma due sono ravvicinati; forse una vecchia sosta?)
6° tiro: per facili roccette raggiungere la vetta; 15 m; III+.
Discesa: dalla vetta seguire i bolli arancio scendendo per roccette (eventualmente assicurarsi) fino alla sosta di calata. Con tre calate da 25 m si è al colle tra la Torre Costanza e Cecilia, da cui per ripidi prati si giunge in breve al punto di partenza.

Nota: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

sabato 3 maggio 2014

Gli egoisti

di Bonaventura Tecchi
Bompiani, Milano, 1961 (1a ed. 1959)

Adesso, mentre discendeva in furia, giù per quei ciottoli duri, cattivi, che la rincorrevano alle calcagna quasi come mastini, giù per le svolte di quella strada scabra, arida, maledetta, non ricordava più per quale ragione, a un certo momento, gli avesse rivolta una domanda strana e per lei tanto importante. Sulla solitudine dei corpi, delle anime? Sulla tremenda solitudine nell'amore? Che cosa gli aveva chiesto?
Questo è un libro che a mio parere poteva essere un capolavoro ed è invece "solamente" bello. Ma andiamo con ordine: Tecchi ci racconta le vicende sentimentali di cinque uomini che conosciamo nel pranzo di apertura del racconto. Uno di loro serve solo come escamotage per la relazione di Marcello ed Isabella ed esce di scena rapidamente; quindi quattro: Paolo, il medico ed anfitrione, e Fausto, il dotto orientalista, i più anziani; Roberto, lo scienziato, e Marcello, traduttore ed artista in erba, i giovani. Tutti uomini d'ingegno, come Tecchi rimarca più volte, eppure tutti incapaci di accedere alla dimensione profonda dell'amore. I giovani Marcello e Roberto sono accomunati dall'approccio verso le loro mogli/compagne (a loro volta accomunate da un tragico destino), con le quali non riescono ad elevare la relazione oltre la dimensione carnale o affettiva, su fino alla comunione degli spiriti (questo dissidio anima/corpo è un po' stucchevole letto oggi): le donne - ammirevolmente descritte - sono ineluttabilmente private dell'accesso all'anima dei loro uomini, si ritrovano perennemente escluse da un mondo che pure gli è fortemente debitore, condannate alla solitudine dall'incomunicabilità affettiva degli uomini, dal loro egoismo.
Il più anziano Fausto, che introduce il tema portante del rapporto bene/male già nelle prime pagine, vorrebbe rappresentare una compiaciuta ed intelligente amoralità (invero assai blanda se rapportata ai giorni d'oggi) e finirà col misurarsi e perdersi con donne mai neppure citate per nome, in un posto (Pavia) mai nominato ma solo suggerito, in una di quelle tipiche sovrapposizioni tra luoghi e sentimenti che percorrono felicemente il romanzo (si pensi al colle innominato sopra Ospedaletti). Nemmeno Paolo, che fa un po' da baricentro alle vicende e i cui trascorsi viviamo retrospettivamente, è immune da questo "male" e dalle sue "vittime"; vi ha sempre convissuto e ne tenterà una comprensione insieme a Marcello nel finale.
Fa da contraltare a codesti signori padre Van der Bergen (vi è poi un altro Monsignore assai indulgente con la mondanità che illustra il proverbio dell'abito), che appare all'inizio a marcare le polarità entro cui si muove il racconto e assume via via importanza nella seconda parte: impossibilitato a fermare il destino di Isabella, il prete olandese donerà infine consapevolezza a Marcello, illuminando l'eterno dilemma bene/male con cui il libro si apre. Di più non si può chiedere, la soluzione dev'essere cercata da ognuno dentro di sé. Ma l'accenno di contrapposizione fede/ragione che corre più o meno velatamente nel libro non può non provocare un po' di fastidio, e le pur belle pagine finali avrebbero potuto suggerire un senso diverso - o nessuno affatto - alle traversie di Marcello e Paolo (per tralasciare un sospetto tremendo sul futuro del primo). Questo, insieme ad una certa schematizzazione dei ruoli uomo/donna (carnefice/vittima), riporta alla frase iniziale. Un libro comunque da non perdere, che contiene altresì numerosi spunti sottotraccia, dall'egoismo dell'artista e la sua incomunicabilità col pubblico alla genesi del processo creativo.

Tecchi fu compagno di prigionia a Celle Lager di Carlo Emilio Gadda, che lo menziona nel Diario di prigionia; da qui la curiosità di leggere qualcosa di suo. Un altro esempio di come i migliori percorsi di lettura siano suggeriti dai libri stessi.