martedì 20 ottobre 2015

Via del diedro

Paolino sul 2° tiro.
Sul 3° tiro.
Paolino sul 4° tiro.
Tracciato della via.
Torre di Aimonin - Valle dell'Orco
Diedro SO


Paolino dalla sosta, con aria distratta, mentre io cerco di infilare il friend giusto nella fessura del 3° tiro:
– Ah... ti serve il friend del 3 per proteggere la fessura... ce li ho qua tutti e due io...
– (commenti irriferibili)...

Tra le poche certezze maturate in anni di arrampicata spicca una massima incontrovertibile: mai fidarsi delle proposte di Paolino! Così, quando mi lascio convincere a partire il venerdì sera per la valle dell'Orco per dormire nel furgone ed essere pronti la mattina, sfoggio - per usare l'espressione che proferì una studentessa di fronte al mio esame di Elettronica - l'entusiasmo di un Dodo. In programma non può che esserci una delle vie neglette della valle, quelle che nessuno mai ripete (chiedetevi perché!), che però troviamo bagnata sul tratto-chiave del primo tiro. Gran delusione di Paolino, un po' meno del sottoscritto e del resto della compagnia. Si vira allora per la torre di Aimonin, dove l'unica via libera è la via del diedro. Bello tornare dopo tanto tempo in Valle e avere la conferma di essere negati per questo stile di arrampicata!
Accesso: si lascia l'auto nel parcheggio della piazza di Noasca (o appena di là dal fiume) e si prende la strada di fronte che sale verso sinistra, abbandona le case del paese e diviene presto sentiero. Si tiene la destra ad un paio di bivi (indicazioni) e si giunge in una mezz'oretta al cospetto della Torre di Aimonin, nei pressi della partenza delle vie del Pesce d'aprile e dello Spigolo (numerose cordate presenti alla base e lungo le vie). Proseguire verso destra in leggera discesa, costeggiando la parete fino a giungere sotto un evidente diedro dove parte la via.
Relazione: bella via, con percorso logico, nello stile della valle, ovvero quasi interamente da proteggere. Difficoltà non esagerate, ma che richiedono familiarità con le protezioni veloci e con l'arrampicata in fessura; portare friend fino al 3 BD. Le soste (tranne l'ultima) sono attrezzate con due fix, catena ed anello di calata; speriamo che almeno queste non vengano prese a martellate da qualche talebano.
1° tiro: per rocce rotte ed una fessura fino al terrazzo di sosta; 15m, IV+.
2° tiro: a destra della sosta a prendere il diedro (passo iniziale sbilanciante) che si risale per lame e fessure fino al gradino di sosta; 40m, VI-, V+; cinque chiodi.
3° tiro: salire il diedrino sopra la sosta, poi per fessura e breve camino si esce in cima al pilastro; 20m, V, VI, V-; un friend incastrato nel camino.
4° tiro: rimontare il gradino con mugo, portarsi una decina di metri verso destra a prendere una cornice che riporta verso sinistra sotto un diedro obliquo fessurato. Sopra questo si prosegue per placche o sul filo dello spigolo fino ad una pianta dove si sosta; 45m, VI+, IV+; un dado e un friend incastrati, un chiodo. Sosta su cordoni con maglia-rapida.
La via presenta un quinto tiro ormai dimenticato.
Discesa: bastano due calate in corda doppia da poco meno di 60m (sulla via o su una delle soste delle vie alla sinistra). Prima calata dalla 4a sosta alla 2a, seconda calata fino a terra.

Nota: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

venerdì 16 ottobre 2015

Rossese di Dolceacqua DOC Maixei 2013 Coop. Riviera dei fiori

C'è un proverbio che tutti conoscono sull'errare e il perseverare, l'umano e il diabolico. Ora, è certamente vero che l'inferno è popolato di gente ben più interessante che non il paradiso (che dev'essere di una noia... mortale!), ma non sono del tutto sicuro che questo autorizzi il perseverare in alcuni errori, uno in particolare: quello di tardare troppo ad aprire una bottiglia, col risultato di doverne poi gettare il contenuto.
Se questo capita ad una cena chez moi, non c'è problema (a parte il dispiacere per l'occasione sciupata): si scende in cantina e si rimedia; quando capita con una bottiglia che porto ad un ritrovo conviviale da amici, invece, il danno è duplice ed al momento irreparabile.
Per rimediare all'ultima di queste figuracce, orditami da una bottiglia di Rossese di Dolceacqua da cui mi aspettavo grandi cose, mi sono ripresentato dal mio anfitrione con un altro Rossese, dell'ultima annata disponibile. Un produttore - meglio, una cantina cooperativa con una trentina di soci - mai incontrato prima, un Rossese dal nome intrigante: Maixei. Partiamo da questo: come spiegato nel retro dell'etichetta, maixei è il nome dialettale dei muretti a secco che sorreggono le terrazze dove si trovano le vigne, su terreni impervi che obbligano ad una raccolta manuale delle uve. Rossese in purezza, fermentazione ed affinamento in vasche di acciaio, una lavorazione "minima ed essenziale", come spiegato sul sito della cantina. Ed il risultato non delude: colore rubino, aromi di frutti rossi e note floreali. Al palato è innanzitutto giovane e morbido, assai piacevole; ai sapori già percepiti si affianca una nota speziata ed il "classico" finale un po' amarognolo, il tutto sorretto da un buon corpo. Un'altra dimostrazione di come nelle infinite (forse troppe) piccole DOC di questo paese si nascondano dei veri tesori enologici.
Sempre restando sul Rossese, da assaggiare quanto prima il Superiore della stessa cantina, mentre il Barbadirame mi suscita meno entusiasmo per via del suo passaggio in legno... ma mai giudicare prima di aver assaggiato!

domenica 11 ottobre 2015

Fivy (con var. L'incertezza al 3° tiro)

Callisto all'uscita del 1° tiro.
Sul 3° tiro.
Calisto sul 4° tiro (peccato per la
messa a fuoco sbagliata...).
Tracciato della via (azzurro). In rosso la Via lunga.
Bric Pianarella
Parete O


– Scusa, sai che grado ha questa variante? L'originale l'abbiamo già fatta...
– Mah, sarà 6a-6b...
– Ah... a guardarla si direbbe di più... allora la provo...
Appeso lungo il traversino verso sinistra, mentre l'amico in sosta mi indirizza muti improperi, mi ripeto che devo smetterla con questo inguaribile ottimismo nei confronti del prossimo. Per superare il tetto, appendo zaino e ferraglia (il programma originale prevedeva una via con protezioni da integrare che abbiamo trovato occupata), salgo e ridiscendo a prendere il materiale; sopra finisco i rinvii ma ne trovo uno abbandonato che mi fa giungere in sosta senza altre peripezie. Più tardi, a Finalborgo, aspettando che apra l'enoteca per rimpinguare le mie scorte di Rossese, tra la festa di Finale for Nepal, scoprirò che la variante è valutata 6c+. Mai fidarsi di chi si incontra in via!
Accesso: dall'uscita del casello autostradale di Orco-Feglino dirigersi verso Finale. Dopo circa un paio di km si nota un cartello Finale ligure sulla sinistra e poco dopo un ponte scassato sulla destra che conduce ad un ben noto agriturismo. All'altezza del ponte, sulla sinistra, si parcheggia e si prende il sentiero che sale in corrispondenza di una chiesetta votiva. Si giunge ad una parete e si prende a sinistra, seguendo il sentiero per una cinquantina di metri fino ad un bivio con ometto dove si sale verso destra all'attacco della via. Scritta sbiadita alla base.
Relazione: via breve ma molto bella e consigliabile, con solo qualche tratto un po' rovinato dalla vegetazione. Se è la prima volta che la percorrete, consiglio vivamente di attenersi al percorso originale, che supera la placca superiore sulla destra (un passo di 6a+). Se ci tornate per una più o meno casuale ripetizione, valutate una delle (più impegnative) varianti. La via è protetta a fittoni resinati mentre nei dintorni corrono altre vie a spit; difficile perdersi! Inutili friend, portare solo rinvii.
1° tiro: salire la placchetta fino alla cengia e spostarsi a destra ad una sosta; proseguire per il diedro con uno spostamento delicato verso sinistra all'altezza di un piccolo tetto triangolare e continuare fino ad uscirne per placchette e vegetazione in corrispondenza di una grotta. 35m, 6a; cinque fittoni, due cordoni in clessidra, una sosta, un chiodo. Sosta su due fittoni con catena e anello di calata. Allungare la protezione sulla sosta intermedia (oppure spezzare il tiro in due).
2° tiro: uscire dalla grotta sulla destra e salire una placchetta fino ad una zona con alberi; da qui si prosegue per un diedro sino ad uscirne su un terrazzo con massi ed alberi. Passare sotto un masso e raggiungere la sosta. 30m, 4c; due fittoni. Sosta su due fittoni con catena e anello di calata.
3° tiro: la via originale va a destra (cordone blu in clessidra); a sinistra si vede la linea di Gibbo, dritti sopra la sosta vi aspettano i fittoni della variante L'incertezza. Salire dritti, poi spostamento delicato a sinistra e breve tetto seguito da placchetta via via più facile. 25m, 6c+ (6a/6a+ e A0); quattordici fittoni. Sosta su tre fittoni e un cordone in clessidra.
4° tiro: Dritto sopra la sosta continua L'incertezza con un tiro decisamente troppo impegnativo per noi, che torniamo sul percorso originale. Si va quindi in traverso a sinistra della sosta, ignorando un fittone alto (è l'uscita di Gibbo) e proseguendo ancora lungo la placchetta fino ad una specie di ripiano. Qui si sale passando a destra di un grottino giallastro e si esce verso sinistra alla piazzola di sosta. 25m, 5b (passo); tre fittoni, due chiodi, un cordone in clessidra. Sosta su albero.
Discesa: traversare brevemente verso sinistra e salire nel bosco fino ad incontrare il sentiero principale. Seguirlo verso sinistra fino alla deviazione ancora verso sinistra che riporta alla base della parete.

Nota: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

martedì 6 ottobre 2015

Le prime guide alpinistiche delle Grigne

E la [...] guida non risulterà un elenco sistematico di itinerari, ma l'opera di un grande impegno e di una profonda passione. Soprattutto l'opera di un uomo.
Dopo le guide delle Orobie e delle Prealpi bergamasche, continuo le mie peculiari letture delle guide alpinistiche d'antan volgendo l'attenzione alle vicine Grigne (che in realtà sarebbero poi parte delle prealpi suddette, ma poiché l'Italia è il paese dei campanili è meglio soprassedere): accantoniamo quindi le pubblicazioni a carattere non spiccatamente alpinistico e le prime monografie pubblicate sulla Rivista Mensile per percorrere quasi cinquant'anni di arrampicate in quel gruppo con l'ausilio di tre guide, scritte in decenni differenti.
Il vate che ci accompagna negli anni '20 è Gianni Barberi, autore di Grigna - arrampicate Grigna meridionale, la prima guida alpinistica del gruppo, pubblicata dalla SUCAI nel luglio 1925 (la prima pagina riporta un curioso 1. Edizione N. 000). L'introduzione spiega che la SUCAI si affidò per la compilazione della guida nientemeno che al Gruppo Amatori delle Alpi (!!), che rifilò il lavoro al Barberi. La prima edizione, "trattando unicamente la parte prettamente alpinistica della montagna, ne descrive la salita ad ogni singolo Torrione, limitandosi però ad un solo itinerario, quello comune". Una guida quindi essenziale, che riporta 24 salite ad altrettanti torrioni (incluso il Dito Dones e un ormai dimenticato Torrione Vaghi). Tutte le vie sono... anonime, nel senso che i nomi dei primi salitori non sono riportati (fanno eccezione quelli del Sigaro Dones), e sono accompagnate da schizzi di Angelo Calegari. Assai divertente la descrizione della salita all'Ago Teresita con lancio della corda e alcune calate in corda doppia su singolo chiodo, ma con la raccomandazione di "assicurarsi la solidità"!
La guida era pensata come preambolo ad una seconda edizione "che presto vedrà la luce" e che invece non sarà mai stampata, ed il motivo è assai probabilmente da ricercarsi in quanto si legge nella temuta rubrica Personalia della Rivista Mensile del CAI del novembre-dicembre 1926 (p. CXXIII): Barberi cade sul Disgrazia il 29 giugno, lasciando incompiuto il progetto.

Si passa così agli anni '30, alla mitica Guida dei Monti d'Italia, vero fiore all'occhiello del CAI. Nel 1934 inizia la seconda serie e nel 1937, con soli quattro volumi pubblicati, Silvio Saglio inaugura con Le Grigne la sua attività di instancabile compilatore di guide che lo porterà a completarne (anche in collaborazione) poco meno di una decina. Il lavoro è immane: l'unica pubblicazione precedente (quella del Barberi) è limitatissima e le vie nuove nel gruppo delle Grigne sono numerosissime. Saglio consulta, legge, chiede, vagabonda per i sentieri, fotografa e ripete qualcosina; non ho idea di quanto tempo impieghi a raccogliere il materiale, ma il risultato è impressionante: quasi 500 pagine. Tolti i Cenni generali, le Vie d'accesso e i Rifugi, la parte alpinistica va da p. 141 a p. 472, dove il volume termina con due brevi sezioni su scialpinismo e speleologia: escludendo le descrizioni delle salite oggi annoverate come escursionistiche, restano circa 300 pagine o poco meno.
Numerosissimi gli spunti, le informazioni e gli aneddoti presenti, che rendono interessante la lettura. Sull'aspetto più propriamente alpinistico segnalo la scoperta (per me) dell'esistenza di una via del 1931 di Ettore Castiglioni in Grignetta, alla parete O della Guglia Angelina (p. 262), valutata di IV. Lo stesso apre poi una variante alla salita per il versante N della stessa guglia (p. 264). E che dire della salita del 1° novembre 1923 di III per la fessura N e lo spigolo NO della Torre Cecilia (p. 301, vedi figura)? Due cordate salgono, e la seconda è composta nientemeno che da Sandro Bartoli e Dino Buzzati! Chi sapeva di una via in Grignetta del grande scrittore, allora diciassettenne? Invero, Saglio scrive Dino Buzzatti, ma che si tratti di una svista (corretta nelle guide successive) è testimoniato dal nome del compagno di cordata: Bartoli fu compagno di liceo e di arrampicate di Buzzati, citato in diversi racconti, e morì in montagna a 21 anni. Naturalmente, siamo andati subito a ripetere la via.
Lasciamo Dino e proseguiamo, leggendo la storia alpinistica (e non solo) degli anni '30 nei nomi delle salite, nomi che oggi sono comprensibilmente (e fortunatamente) dimenticati: la via di Dell'Oro, Varale e Cassin alla O dell'Angelina si chiama via XXVIII ottobre, infausto giorno della marcia su Roma e del suicidio politico dell'Italia, anche se Saglio cita la data come quella di fondazione dei Fasci di combattimento, che è diversa. Ci ricorda anche che "il fatto è ricordato da una lapide posta all'attacco, dono del Fascio di Combattimento di Lecco al Gruppo Giovani Fascisti Nuova Italia" (p. 262). E che i tre salitori ai tempi non facessero mistero delle loro poco argute simpatie lo rivela la famosa Via del Littorio (p. 320). Ma non sono i soli: la salita allo spigolo S della Piramide Casati di Basili e Confortini è dedicata alla squadra d'azione Carnaro (p. 291).
L'associazionismo però non è sempre esplicitamente politico, ed è così che sulla vetta del Fungo "venne issato in seguito un fanale, simbolo del Gruppo Audaci Scalatori, associazione alpinistica ora scomparsa" (p. 245), per non parlare dell'Ago Teresita, sulla cui vetta "venne issato un remo (simbolo del canottaggio) di cui il primo salitore [Erminio Dones] fu campione europeo" (p. 254). Poco male: meglio i remi e i fanali che i fasci littori!
Anche le descrizioni delle salite riservano sorprese, a partire da quella (ricordata sopra) relativa all'Ago Teresita con lancio di corda (p. 256) fino al superamento degli strapiombi con piramide umana (O del Campaniletto, p. 237 e S della Torre Cecilia, p. 308) o al superamento a cavalcioni di un masso mobile (!) alla O del Fungo (p. 249), per finire con le vie a traversata aerea a mezzo di funi, come quella tra Lancia e Fungo (p. 250) e tra Teresita e Angelina (p. 259), entrambe di Giovanni Gandini. Salutiamo i corvi che nidificavano alla Casati (pp. 295 e 296) e scopriamo l'origine dei nomi Rosalba e Cecilia (p. 300), figlia e moglie di Davide Valsecchi, che donò il rifugio al CAI, sorridiamo al leggere del fiume d'Oa sul versante di Mandello, "che la gente crede provenga dalla Valsassina e passi sotto al Grignone" (pp. 98 e 344) e terminiamo con la descrizione del profilo del Monte S. Martino, la cui cresta occidentale "si presenta con il profilo di Napoleone [...] (Stoppani, Bel Paese). Da Lecco invece il complesso sembra un testone d'allocco co' suoi bravi cornetti. Verso la Val Gerenzone, da opportuni punti di vista, presenta la figura di Rossini in età avanzata". Riferimenti culturali ormai scomparsi, similitudini che nessuno userebbe più. Anche qui sta il fascino di questa guida.

Passano quasi 35 anni prima che qualcuno rimetta mano al lavoro di Saglio, 35 anni in cui gli alpinisti "sono i maggiori frequentatori del Gruppo" (oggi temo che non si potrebbe più fare impunemente cotal affermazione), le vie nuove crescono ancora e molte cose cambiano. L'opportunità di aggiornare (e correggere) la guida precedente è colta dal benemerito editore Tamari di Bologna all'interno della collana Itinerari alpini e la cura della composizione è lasciata a Claudio Cima, altro noto compilatore di guide, soprattutto in ambito dolomitico (Pale di S. Martino, Sella, Dolomiti meridionali). Cima è allora studente ventenne a Milano e di lì a poco sposterà la sua attenzione verso i monti pallidi, inizia il lavoro nel 1968 e pubblica Le Grigne nel 1971 (2a ed. 1975, dove alcuni errori sono corretti). 220 pagine totali, 177 dedicate alle relazioni alpinistiche, due belle cartine allegate. L'impostazione e tutto l'impianto suonano assai diversi da quelli di Saglio, a partire da una certa sensibilità che oggi potremmo definire ambientalista ante litteram, che porta l'autore a deplorare il depauperamento del patrimonio vegetale e animale delle montagne e lo sviluppo edilizio dei Resinelli con la "troppo inopportuna evidenza" del grattacielo (p. 23), conscio però che "siamo in Italia, e non possiamo lamentarci di come conciano la Natura, e la Montagna in particolare: ci poteva andare anche peggio" (p. 15). Un accenno polemico è riservato anche alla "ferratura" del "crestone NO" del Sasso dei Carbonari, "onde permetterne il transito anche ad alpinisti di mezza tacca", mentre a p. 111 l'autore perde un poco la pazienza con il suo predecessore: "Sulla guida Saglio si accenna a delle varianti che evitano la placca terminale [del Fungo]. Sinceramente non riesco a capire dove si sia andati in quei tempi (1914-1923)!". Decisamente più moderne anche le descrizioni dei punti di appoggio e di fondovalle, che assumono connotazioni quasi turistiche (incluso il venditore di bibite in vetta alla Grignetta, menzionato tra i "posti di chiamata" a p. 16) e dove apprendo che la strada dei Resinelli richiedeva un pedaggio di ben 200-300 lire (p. 24). Anche l'approccio alla relazione alpinistica è diverso: Saglio è, per così dire, ecumenico, sistematico ed enciclopedico nello stile della collana del CAI; Cima dà invece un'impronta personale alla guida: sceglie, seleziona, valuta cosa inserire e cosa no, cosa consigliare e cosa no. È un precursore delle guide odierne.
Dalla lettura delle relazioni, dove compaiono Bonatti, Gogna e tanti altri nomi familiari, notiamo così che ancora negli anni '70 il superamento di strapiombi con piramide umana non era passato di moda (Fasana alla E del Magnaghi Centrale, p. 82; Lucini-Prina alla O del Campaniletto, p. 106; Bianchi al Medale, p. 182; Cassin alla O e Pensa alla N del Pizzo d'Eghen, p. 209), che il masso mobile della Ferrero-Lucini alla SO del Fungo ("bisogna attaccarvisi!") era ancora lì e sarebbe interessante sapere che fine ha fatto oggi, e che la valutazione dei gradi e della... ehm... etica dell'arrampicata doveva ancora definirsi per bene: "salire dritti, prendere dei chiodi, superati i quali si va ad una cengia" (p. 118), "girare uno spigoletto, aggrapparsi ad un chiodo, su dritti ad un altro chiodo,..." (p. 172) o il simpaticissimo "un passo di VI se manca un chiodo" (p. 179) che lascia supporre una sana tirata in presenza di detto chiodo, pratica cui peraltro nessun alpinista di mia conoscenza si è mai sottratto, io in primis. Del resto i chiodi si usano senza troppa parsimonia: 220 chiodi sulla Oppio alla SE del Sasso Cavallo (p. 196) e 250 sulla Redaelli alla OSO dello stesso (p. 200). Chiudo le citazioni con la descrizione della "via del rampino della stufa" (p. 64) al Torrione della Grotta: "Anche questa via è opera di Filippo Berti con 'Johnny' [Valerio Carrara], 1955 o 1956. Luciano Tenderini e Gigi Alippi ne tentarono una ripetizione, ma il passaggio chiave non si lasciò vincere neppure con il rampino suddetto, forse a causa di un appiglio venuto via". V e A1 sulla guida di Pesci... mah...
Dal punto di vista, diciamo così, "storico", è interessante leggere la vicenda del Diedro Colnaghi al Medale (p. 183, vedi figura), qui chiamato "Spigolo ESE" e definito un po' troppo sbrigativamente "poco interessante", mentre la prima invernale alla parete Fasana del Pizzo della Pieve è attribuita ad una cordata nel 1950 (p. 203), dimenticando la storica impresa del grande Eugenio Vinante nel 1935 (errore che si ritrova anche nella guida CAI di Pesci del 1998). Serve poi un po' di orientamento per districarsi nei toponimi desueti, come la Torre Zio (ora Torrione Ratti), la Piramide Guedoz (ora Torrione Mandello) o la Torre Casati (ora Torre Vitali), mentre diamo merito a Cima di aver individuato "una possibilità a sinistra della fessura Gasparotto" che diventerà poi la via Franco Dolzini. Chiudono il libro poche pagine su Campelli, Resegone e Corni di Canzo.

venerdì 2 ottobre 2015

Nebbiolo d'Alba DOC Occhetti 2000 Prunotto

Ci sono bottiglie che restano in cantina, anno dopo anno. Non parlo necessariamente di barolo o brunello, Amarone o Taurasi, di bottiglie cosiddette "importanti", e nemmeno di bottiglie guardate con diffidenza, ma di bottiglie che semplicemente se ne restano lì, senza essere portate in tavola: è troppo giovane, non si abbina, volevo bere altro... insomma, restano preservate da una serie fortuita di eventi. Poi, ad un certo punto, l'occhio le nota in maniera diversa, si fanno due calcoli, si pensa: "Mi sa che questa ormai è andata", si tergiversa ancora un po', fino a quando non si trae il dado.
Recentemente ho ripescato due di queste bottiglie, identiche tranne l'anno, 1999 e 2000. Ricordavo benissimo dove le avevo comprate, le circostanze, i piccoli significati che si attribuiscono a certi oggetti, le memorie che si depositano con gli anni sui fondi delle bottiglie, ma tutto ormai visto da lontano, senza particolare nostalgia. Ho quindi deciso che me le sarei bevute in beata solitudine, come vecchi amici.
La bottiglia del 1999 è stata una mezza delusione, col vino ormai sfinito dal lungo invecchiamento e io che mi davo del fesso per non averla aperta prima. Dopo poche settimane, senza alcuna attesa, ho aperto il 2000 e... sorpresa! Una bottiglia ancora incredibilmente viva, che certo porta i suoi annetti e non è al massimo della forma, ma che ancora dispensa nobili aromi e gusto.
Dal sito del produttore (molto dettagliato, con le informazioni sulle diverse annate) si legge che l'Occhetti 2000 invecchia per dieci mesi in grandi botti e tonneaux, più quattro mesi in bottiglia. Il colore è granato, non trasparente. Frutti rossi e qualche leggera nota floreale salgono dal bicchiere, buoni l'acidità e il tenore alcolico, che accompagnano l'assaggio insieme ad una buona persistenza. Certo, il vino ha perso un po' di freschezza con gli anni ma si è arrotondato e mostra un buon equilibrio complessivo.
Una vera, gradevole, sorpresa.