venerdì 15 aprile 2016

Sagrantino di Montefalco secco DOCG 2003 Ruggeri

Ci risiamo con l'Umbria, ci risiamo col Sagrantino! Dopo l'assaggio del Colpetrone, eccomi ritornato a gusti che mi sono più congeniali, a vini che nascono da piccole produzioni e che, per esempio, riposano in botti grandi da 25 ettolitri dopo una vinificazione in acciaio. Vini classici; o tradizionali, se preferite. Vini ottimi da abbinare ad una faraona superbamente cucinata da Amedeo, ormai uno dei miei compagni inseparabili di assaggi. Come mia abitudine, mi presento con una bottiglia ormai démodé, con ben tredici anni di invecchiamento (pardon: affinamento), acquistata in un'enoteca perugina qualche secolo fa.  Stappo, un po' di ossigenazione - ma non troppo - e via.
Il colore è quello che ci si aspetta dal sagrantino, rosso cupo piuttosto impenetrabile. Quando si apre, il vino regala larghi aromi fruttati su cui si sovrappongono note floreali e un po' di spezie. Al gusto, si apprezza una longevità decisamente buona (per quanto qualche anno in meno gli avrebbe fatto bene) e una morbidezza, una rotondità intrigante, anche per merito degli anni. Buona la concentrazione e l'equilibrio tra i sapori; persistenza interessante. Se questo è il risultato dell'annata 2003, che non pare sia stata eccezionale, viene davvero voglia di assaggiare qualche bottiglia di anni ancora migliori!

martedì 12 aprile 2016

La macchina mondiale

di Paolo Volponi
Garzanti, Milano, 1965

Sono uscito davanti a casa ed ho avuto davvero la sensazione che le cose potessero seguirmi. Ho aspettato ancora e mi sono nutrito; non ho aspettato mai, e non aspetto nemmeno adesso, quelle povere conclusioni delle quali parlava Massimina [...]: aspettare che il padrone ti liberi o che ti paghi meglio; aspettare che l'Eccellenza muoia o si ravveda o che si faccia ingannare, una volta che si sia rimbambito su una poltrona; aspettare che i preti e i professori ti dicano la verità; aspettare che questo tempo nemico che fu messo in gabbia possa consolarti colla ripetizione delle sue canzoni. Io non aspetto e decido di andare avanti; voglio scrivere su questo libro le ultime azioni del tentativo che ancora sto facendo di andare avanti.
Sbaglierò, ma temo che Volponi faccia parte di quella schiera di narratori italiani del Novecento oggi largamente dimenticati. Certo, il primo commento appena girata l'ultima pagina è che questi cinquant'anni hanno cambiato davvero tutto, ed il libro ne risente alquanto. Tuttavia, non si può negare che l'opera porti nell'anima temi ed indicazioni del tutto validi ed importanti anche per il mondo d'oggi.
Il mondo della Macchina mondiale è invece quello contadino della campagna urbinate negli anni '50, dove vive Anteo. Questi dedica il suo tempo non a lavorare la terra, come tutti si aspettano da lui, ma a costruire una specie di sistema filosofico che postula che esseri (forse artificiali) provenienti da altri mondi abbiano creato l'uomo, dandogli il compito di "ripetere l'opera dei suoi progettisti, però con materiali e forme diverse". Tradotto, significa che gli uomini dovrebbero essere liberati dal lavoro manuale grazie alle macchine, per vivere guidati ed affratellati dalla scienza e dedicarsi alla costruzione di altre macchine, "intelligenti" e "coscienti", che li trascendano, che siano migliori di loro. E qui, per Anteo iniziano i problemi: sia i proprietari terrieri, sia la Chiesa, non sono propriamente entusiasti di una visione atea ed egualitaria della società, di una "Accademia dell'amicizia tra i popoli" dove l'autorità tradizionale non trova posto, anche perché Anteo va declamando i suoi principi a destra e a manca, convinto di essere uno "scienziato" che troverà giusto riconoscimento.
Anteo rappresenta l'utopia scientifico-tecnologica, legata al boom economico degli anni '50 e all'introduzione delle prime macchine a controllo numerico, per non parlare dell'Elea 9003, il primo calcolatore elettronico realizzato in Italia nel 1959. Ma il suo anelito è universale, quasi teologico e, senza disdegnare qualche tinta politica, si stempera nella comunione con la natura, nella poesia, poiché "il sentire poetico [...] è anch'esso uno strumento della scienza". La società tradizionale è invece incarnata (oltre che da giudici ed avvocati) principalmente da Massimina, la moglie di Anteo, colla sua famiglia "di contadini più feroci ed ignoranti [...] che godono soprattutto delle disgrazie che capitano ai loro vicini". Costei, dopo aver tentato di "ravvederlo", lo lascia e fugge a Roma: i tentativi di Anteo di rivederla sfoceranno in una tragedia per entrambi. Così il rapporto con Massimina, l'amore declamato da Anteo (che però si coniuga quasi sempre come desiderio sessuale), la mutua incomprensione ed il tragico finale sono la metafora del fallimento dell'utopia, che avrebbe potuto/dovuto portare ad un ben diverso esito (si pensi alla sorte del figlio).
Anche l'insuccesso del tentativo di lavorare la terra con le macchine acquistate ipotecando la casa, pur testimoniando la resistenza contadina all'innovazione, getta qualche dubbio sul progetto di Anteo. E che l'autore voglia segnare un certo distacco con il suo alter ego lo si capisce dai tratti contraddittori e riprovevoli che gli assegna: Anteo deruba senza scrupoli sia la contessa che i contadini e bastona la moglie che non intende le sue teorie ("ma debbo dire che bastonandola non la insultavo, non lei; insultavo soltanto la stupidità del mondo del quale la sua materia era compartecipe"). Anche il pericolo totalitario dell'utopia emerge nel dialogo con Liborio: "Io penso seriamente che potrei servirmi della morte per migliorare i miei progetti [...], per affogare nei fossi e sotto terra gli ostacoli malvagi e i grovigli che impediscono ai miei progetti [...] di allargarsi [...]; quindi non temo, di fronte a questa speranza che mi esalta, di superare alcuni ostacoli, quali possono essere la morte di pochi prepotenti."
Il linguaggio di Volponi si adatta mirabilmente, nel corso del libro, alle circostanze: lunghi periodi pieni di incisi soprattutto nella parte iniziale, dove il pensiero di Anteo è ancora confuso e non ben delineato; più nitido e chiaro nella seconda parte, dove gli eventi prendono il sopravvento, per assumere toni poetici nelle descrizioni della natura.

C'è però un ultimo commento che devo fare, forse per deformazione professionale, ed è relativo alle teorie di Anteo scritte nel Trattato: letto oggi, questo suona quasi come un testo ottocentesco, o come se fosse scaturito da una visita ai modelli anatomici del Museo della Specola, senza riguardo per lo sviluppo scientifico successivo: Anteo si preoccupa di "stabilire un codice morale che potesse dare alle macchine una sorte diversa da quella meccanica" ma per farlo disegna, con toni quasi leonardeschi, animali e ingranaggi meccanici! Ma nel 1965 lo sviluppo dell'elettronica aveva già portato ai calcolatori programmabili e proprio in quegli anni nascono i primi sistemi operativi, per non parlare dello sviluppo teorico dei controlli automatici. Invece, niente di tutto ciò; i riferimenti di Volponi restano arcaici, come gli automi settecenteschi di Vaucanson: nel colloquio con il professore dell'Università di Roma, Anteo parla di "linfa universale impressa da spontaneo orgoglio", dice che "l'attimo creativo è concepito attributo eterno dei contributi dell'origine della creazione congenita dell'universo" (??) e conclude (tacendo sulle tavole) affermando che "L'attimo creativo, concepito come integrità dinamica automatica, psicologico-scientifica, è l'origine della creazione, mossa dalla validità degli argomenti e dall'autorità degli strumenti degli automi-autori". Dubito che chiunque proponesse tautologie simili ad un mio esame avrebbe qualche possibilità di superarlo!
I professori dell'Università non sono più aggiornati di lui, ma almeno fanno un'obiezione sensata: come si innesta il pensiero sulla meccanica? Ora, la questione è tutt'altro che banale, ma cavarsela dicendo che "la pesantezza ed il limite della meccanica [...] sarebbero stati superati già in partenza dall'intenzione di dare alle macchine un programma morale" e che "il fondamento del programma di costruzione delle macchine, essendo nella sua essenza profondamente morale, avrebbe consentito ogni atto e progresso e perfezionamento delle macchine sempre in senso filosofico e sempre nell'ascesa verso un concetto superiore" vuol dire tutto e niente.

mercoledì 6 aprile 2016

In ricordo di Ale

Diego sul 2° tiro.
Sabrina sul 3° tiro.
Diego e Sabrina sul 5° tiro.
Tracciato della via.
Parete di Patone - Valle del Sarca
Parete NO

Confesso che quando ho sentito il nome della via non ho potute evitare un... toccamento scaramantico! E invece, sarà stato merito del toccamento, sarà stato merito della scelta indovinata, ne è risultata una salita decisamente bella e da consigliare. Fantastici i tre tiri finali, ed infinite grazie a Diego e Sabrina per avermi ceduto il piacere di condurvi la cordata.
Accesso: da Arco si segue la strada per Sarche, si supera l'insegna di una pizzeria, una serie di bandiere nazionali allineate, qualche enorme anfora di terracotta (!) e un semaforo. Subito dopo si svolta a destra e si parcheggia in corrispondenza delle grotte scavate nella parete. Si prosegue a piedi e si tiene la destra al secondo bivio, contornando la ringhiera dell'abitazione visibile sulla destra fino ad un cancello sul retro. Si entra e si segue la traccia subito a sinistra (siamo su terreno privato, quindi: attenzione ed educazione) che porta in breve alla falesia Piccola Dallas. Si costeggia ora la parete verso destra fino alla targhetta di attacco della via. Un quarto d'ora circa.
Relazione: via molto bella, soprattutto nei tre tiri finali su diedri e placche che alternano tratti più atletici ad altri di movimento. Arrampicata in stile plaisir, con ottime protezioni a fix e una difficoltà obbligata intorno al 5c/6a: portare solo rinvii e cordini per le soste su fix. Roccia buona, con qualche punto a cui prestare attenzione. Contare un paio d'ore circa.
1° tiro: salire la placca e spostarsi a destra, per alzarsi ed uscire su terrazzo terroso ove trovasi la sosta. 20m, 4c; quattro fix, uno spezzone di corda fissa all'uscita del tiro. Sosta su due fix.
2° tiro: su per il muretto nerastro ben ammanigliato alla sinistra della sosta, oltre il quale si continua verso destra su terreno facile fino alla base di un evidente diedro. 25m, 5c, 5a; cinque fix, due cordoni in clessidre. Sosta su albero.
3° tiro: salire il bellissimo diedro su roccia lavorata e attraversare verso destra quando diventa più verticale. Un ultimo muretto porta alla sosta. 50m, 5b, 5c; diciassette spit, una sosta intermedia su due fix. Sosta su due fix. Allungate bene le protezioni lungo il traverso o sfalsate le mezze corde se le usate, altrimenti gli ultimi metri saranno faticosissimi. Il tiro può essere spezzato in due, ma vale la pena di percorrere il diedro tutto d'un fiato!
4° tiro: salire il bel diedro fessurato alla sinistra della sosta, proseguire brevemente per placca, spostarsi a sinistra e rientrare verso destra alla sosta. 20m, 6b (generoso), 6a+; dieci fix.
5° tiro: ancora un muretto verso sinistra che porta ad una paretina con prese buone ma sempre un po' nascoste. Si esce verso destra sul piano sommitale. 20m, 6a; cinque fix, uno spezzone di corda fissa nel tratto finale. Sosta da allestire su albero.
Discesa: penetrare nel boschetto senza traccia obbligata, tenendo lievemente la destra fino ad incrociare una mulattiera che si segue in discesa e che riporta sulla strada provinciale nei pressi del bivio.

Nota: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.