lunedì 4 luglio 2016

The sense of style

di Steven Pinker
Viking Penguin, New York, 2014

Style, not least, adds beauty to the world. To a literate reader, a crisp sentence, an arresting metaphor, a witty aside, an elegant turn of phrase are among life's greatest pleasures. And as we shall see [...], this thoroughly impractical virtue of good writing is where the practical effort of mastering good writing must begin.
Tra i tanti podcast della BBC che ormai ascolto regolarmente ce n'è uno a cui sono parecchio affezionato e che tratta del linguaggio e delle sue sfumature. Lì sentii citare questo libro di Pinker, in una puntata sull'eterna disputa tra prescrittivisti e descrittivisti, e mi sono affrettato ad acquistarlo. Ambizioso scopo dell'autore, come spiegato nella bella introduzione, è di presentare un manuale di stile di scrittura "aggiornato" e basato su motivazioni razionali, piuttosto che su regole ferree da osservare sempre e comunque, un manuale "designed for people who know how to write and want to write better" e anche per "readers who seek no help in writing but are interested in letters and literature and curious about the ways in which the sciences of mind can illuminate how language works at its best". Pinker si focalizza sulla saggistica, e considerato che da anni scrivo articoli scientifici in inglese e che ora mi tocca declamare le lezioni in lingua d'Albione, il libro casca, come si suol dire, a fagiolo.
I primi capitoli non si fanno particolarmente notare e sono dedicati all'analisi delle caratteristiche che rendono uno scritto particolarmente riuscito o il suo opposto. Perché scrivere saggistica con queste caratteristiche è così difficile? Pinker ne identifica la causa nella difficoltà che sperimenta chi conosce qualcosa quando deve mettersi nei panni di chi tale conoscenza non ha. Lui la chiama "the curse of knowledge", la maledizione della conoscenza, e non ha tutti i torti: vi è mai capitato (prima che tutti girassimo con i cellulari) di chiedere informazioni su una direzione e di sentirvi dare indicazioni incomprensibili, che pure erano ovvie per chi vi rispondeva? Numerosi esempi (non tutti riuscitissimi) aiutano a dipanare la matassa.
Siamo così giunti al Cap. 4, e qui le cose iniziano a farsi interessanti. Con l'aiuto di diagrammi sintattici, Pinker analizza la struttura della frase, che decompone dal punto di vista logico, evidenziando i casi di ambiguità semantica e lessicale (come gli spassosissimi annunci This week's youth discussion will be on teen suicide in the church basement o I enthusiastically recommend this candidate with no qualifications whatsoever) fino ai più complicati e famosi "garden path" come Fat peole eat accumulates, The prime number few o, per restare in tema, Have the students who failed the exam take the supplementary. Dalla frase al discorso il passo è breve, ma il problema della coerenza permane, e anche qui spuntano degli esempi reali che mi hanno fatto rotolare dalle risate, come: The sermon this morning: "Jesus walks on the water". The sermon tonight will be: "Searching for Jesus". Il libro procede però seriamente, estendendo la struttura ad albero ed analizzando i vari approcci alla costruzione del discorso. Anche qui, parecchi esempi e controesempi illustrano chiaramente come persino noti scrittori possano cadere nelle trappole dell'ambiguità.
Siamo così alla parte finale, quella più gustosa, che riguarda le regole grammaticali controverse. La questione è spinosa, è Pinker lo sa bene: come si concilia la convinzione che alcuni usi della lingua siano (o ci appaiano) sbagliati con l'assenza di ogni autorità al riguardo o, se vogliamo, col fatto che la lingua alla fin fine è quella parlata dalla gente e non quella scritta nei manuali? La risposta di Pinker è (semplifico molto) che le regole sono convenzioni che la comunità riconosce e che possono mutare, e che ci sono diverse regole in relazione alle diverse comunità (giornalistiche, letterarie, accademiche,...). Alcune regole, quindi, possono essere più o meno tranquillamente ignorate, tra le quali ci si può divertire con split infinitives, dangling modifiers, possessive antecedents e fused participles. Ora, io sono l'ultimo che può intervenire su queste faccende, e tutto sommato l'argomentazione di Pinker ha una sua logica, ma se faccio un paragone con la lingua italiana non posso fare a meno di provare un po' di disagio. Prendiamo il congiuntivo e la sua più o meno prossima sparizione: ce ne dobbiamo preoccupare? Una risposta che mi dice che detto congiuntivo si deve usare nei registri formali e si può ignorare in quelli più comuni non mi soddisfa troppo (anche se ne colgo la logica)! Altre argomentazioni di Pinker sono basate sulla logica, ma qua e là fanno capolino criteri estetici, di eleganza, a volte basati sul parere di usage panels, a volte in contrasto... ma non importa. Dal mio punto di vista, il pregio maggiore del libro – che è scritto in ottimo inglese e si legge con vero piacere – non è tanto nella maggiore o minore coerenza interna o adesione alla filosofia dell'autore, quanto nella possibilità che fornisce di riflettere sull'organizzazione della struttura di un discorso e di ripassare o imparare ex novo alcune regole della lingua inglese... forse non proprio lo scopo che l'autore si prefigge, ma non del tutto da trascurare, direi. Infine, si possono trovare ottime scuse quando si commettono più o meno numerose sviste!

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